“Picchetto” ovvero il presidio organizzato dai più coinvolti e “militanti” della scuola che all’ingresso presentano il tema su cui vogliono, in quell’occasione, sensibilizzare altri studenti esortandoli a partecipare all’assemblea interna o a raggiungere le altre scuole per la manifestazione organizzata. Quella mattina decisi con i miei compagni di classe (non lo facevamo quasi mai) di aderire allo “sciopero” spontaneo, non autorizzato dall’Istituto e di non entrare. Poi, insieme a loro mi avventurai nel centro della mia città, Milano.
Giunti nei pressi di Piazza Duomo, decidemmo di salire su un tram per spostarci in un’altra zona e, meraviglia delle meraviglie, chi vidi al posto di guida? Mio Papà: tramviere da sempre e tradizionalmente assegnato ad una linea, che ovviamente non era quella da noi scelta. Per un cambio imprevisto di turno era alla guida di quel tram e fui così “colto in flagrante” nella mia “fuga” non autorizzata da scuola. Che sfortuna!
In quel momento lui non mi disse nulla, mi salutò e basta. Al ritorno a casa mi aspettavo una lunga ramanzina e la conseguente punizione, invece, mi disse solo questo: “se avessi avvisato la Mamma avremmo capito e non ci sarebbero stati problemi; sappi che ci siamo rimasti molto male!”. Il tutto si svolse serenamente: avevano già raggiunto l’obiettivo di rendermi consapevole del mio “scivolone”, sapevano che non sarebbe successo ancora e non volevano infierire. Aggiunse, inoltre, “e poi dovresti saperlo che io giro per la città e ti tengo d’occhio, anche quando non mi vedi”. Scherzava, forse.
“Selezione impossibile” ovvero identificare per l’area interessata un collaboratore a cui affidare la gestione di un progetto sul territorio: in quei giorni quello era l’obiettivo “sfidante” che avevo ricevuto dal mio capo. Ricerca non facile sia per le tempistiche ristrette, sia per i requisiti estremamente stringenti in termini di competenze ed esperienze che mi erano stati richiesti per quel profilo professionale. Urgenza, pressioni incombenti e ansia da prestazione sono stati, in questo caso, cattivi consiglieri: quella che sembrava una risorsa rispondente ai requisiti, si era rivelata, nelle settimane successive, non adeguata alle nostre aspettative. La gestione su diversi fronti delle ricadute di questa scelta “frettolosa” richiese un grande impegno da parte mia e una serie di energie profuse che avrei potuto dedicare alle altre attività che rischiavano di venire penalizzate.
A distanza di un paio di mesi, quando ormai tutto si era risolto e avevo sul campo una nuova risorsa performante ed autonoma, il mio capo mi chiamò in ufficio e, tra gli altri temi del colloquio, mi chiese ad un certo punto: “a proposito del progetto X, ha qualcosa da dirmi sulle risorse coinvolte, ora che tutto si è chiuso per il meglio? Come è andata davvero con il Sig. Y?”. Lo avevo a suo tempo informato del cambio di collaboratore in corsa, adducendo motivazioni che mi sembravano perfettamente plausibili. Avevo capito in quell’istante, invece, che il mio tentativo (peraltro riuscito) di risolvere tutto senza coinvolgerlo, portandogli solo il risultato e non le sofferenze per arrivarci, era miseramente fallito. Che sfortuna!
Gli raccontai nei dettagli la storia di quei giorni e il suo commento bonario fu: “che lei fosse in grado di raccogliere una sfida così complessa e di vincerla lo sapevo: se mi avesse coinvolto parlandomi delle sue difficoltà, avremmo potuto risolvere insieme il problema, sicuramente prima, magari ancora meglio!” e mi offrì un caffè.
Questi due momenti della mia vita, da giovane studente quindicenne e da trentenne apprendista manager, offrono a mio giudizio un’occasione importante di riflessione su un paio di temi organizzativi.
Il primo è quello che definisco, mutuandolo dal gergo teatrale, “presenza in scena” ovvero esserci sempre per chi abbiamo al nostro fianco (come collega, collaboratore o coordinatore) anche quando la distanza o altre attività in cui siamo coinvolti sembrano renderlo impossibile. Sapere che il tuo capo, pur lasciandoti da solo a sperimentare, è sempre vicino a te anche quando non lo vedi, non è una negazione in termini dell’autonomia e della responsabilità individuali, ma contribuisce a rassicurare i collaboratori e a garantire un presidio di tutela in occasione di errori o problematiche emergenti. La leadership che ciascuno di noi può mettere in campo nella relazione con l’altro passa, quindi, anche da questo messaggio “per te ci sono, sempre!”
Un altro spunto che traggo da questi due ricordi è l’importanza di evitare quello che definisco “carpet management”. A volte possiamo avere la tentazione di volere risolvere le problematiche autonomamente per non dover riferire la difficoltà in cui ci troviamo o in cui ci siamo messi da soli, proprio in nome di quell’autonomia che vogliamo ci nobiliti agli occhi dei nostri superiori. Razionalmente, però, sappiamo che non è mai utile nascondere “sotto il tappeto” un nostro errore o comportamento non in linea con le attese: prima o poi, tornano visibili e non solo per una questione di sfortuna! Ci ruba energie e risorse che, invece di dedicare a questa operazione di “camouflage”, potremmo riservare alla condivisone ed al confronto su come gestire e superare il problema. Parlarne non solo aiuta ad arrivare “prima e meglio” alla soluzione, ma, probabilmente, contribuisce a correggere in corsa comportamenti e procedure, a far crescere e migliorare l’efficacia individuale e del proprio team.
L’immagine di mio Papà e quella del mio capo di allora mi ricordano quanto è importante mostrare agli altri la propria presenza “silenziosa” e magari “invisibile”, ad essere sempre pronto e disponibile alle richieste e necessità dell’altro e a ricercare ed apprezzare questa disponibilità. Mi aiutano, inoltre, ad evitare di procrastinare e non gestire oggi qualcosa che domani potrebbe diventare molto più grande e grave.
Ogni volta che riceviamo questo tipo di attenzioni, che potrebbero sembrare esagerate o eccessivamente controllanti, riceviamo dall’altra persona un piccolo grande dono: una Piccola Magia Quotidiana, che forse in quel momento non riconosciamo come tale, ma grazie alla quale, riflettendoci, ci possiamo sentire affiancati nel nostro percorso, compresi nei nostri “errori” e aiutati a migliorare.
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