Quante etichette hai incollato oggi?

Al di là del pregiudizio

Se posso permettermi di chiedertelo: perché tu non hai collaborato con noi durante l’esercitazione?

In aula è sceso il gelo. 

Una domanda potente, carica di significato, che potrebbe apparire un po’ maldestra nella sua formulazione a chi per anni si “allena a costruire domande”, posta da una partecipante ad un altro con molta gentilezza e curiosità, con un intento esplorativo e non giudicante. Una domanda calata nel bel mezzo della restituzione di un’esercitazione (la fase rielaborativa successiva ad un’esercitazione che si pone l’obiettivo di far emergere dinamiche relazionali e consolidare apprendimenti), talmente potente da silenziare di colpo gli altri partecipanti.

Prima che il diretto interessato potesse rispondere, rilancio al gruppo un’ulteriore richiesta, destinandola ad ogni singolo partecipante: “qual è l’idea che ti sei fatta/o del comportamento che hai visto agire da “X” durante l’esercitazione?

Le risposte dei singoli partecipanti si possono raccogliere in queste affermazioni: “che X non avesse voglia di impegnarsi”, “che X non volesse dare il suo contributo”.

Per gli altri membri del gruppo X appariva essere colui che “non aveva voglia”. 

Arriva quindi la volta di X, a cui chiedo di rispondere alla domanda iniziale riformulandola. “Quali sono le motivazioni che ti hanno portato ad agire durante l’esercitazione quel comportamento che i tuoi colleghi definiscono “non collaborativo“?“; “Ci ho provato, ma mi sentivo goffo. Non mi sentivo a mio agio, pensavo che avrei danneggiato il gruppo e quindi ho preferito farmi da parte. L’ho anche dichiarato ad un certo punto, ma non so se sono stato ascoltato”.

Tra gli sguardi stupiti dei partecipanti, una conferma: “È vero, l’ha detto. Io l’ho sentito, ma non l’ho preso sul serio”.

Per il gruppo il comportamento di X stava precludendo il raggiungimento dell’obiettivo dell’esercitazione, mentre l’intento di X era cercare di favorirlo.

È così che prende avvio il processo di generazione di “un’etichetta”, un pregiudizio generato dal modo non sempre consapevole con cui ognuno di noi attribuisce significato agli eventi e alle dinamiche relazionali in cui è coinvolto. 

Noi attribuiamo etichette agli altri, gli altri attribuiscono etichette a noi: quanti fraintendimenti si possono esponenzialmente generare in ogni nostra relazione quotidiana?

Alcune caratteristiche delle etichette contribuiscono a renderle dannosamente potenti:

  • È impossibile non farsi un’idea di quel che vediamo e quindi dare avvio al processo di “etichettamento”;
  • Un’etichetta può essere sia positiva che negativa, in entrambi i casi può essere dannosa;
  • Le etichette sono il NOSTRO modo di attribuire significato, riguardano noi. Non riguardano gli altri o gli eventi, ma come NOI ci posizioniamo rispetto agli altri e alle situazioni che viviamo;
  • Se attribuiamo lo stesso significato a diversi comportamenti agiti da una persona, l’etichetta si consolida, cementa e cementifica;
  • Se più persone “etichettano” nello stesso modo uno stesso comportamento, l’etichetta si fortifica e si stabilizza fino ad apparire reale;
  • Se un’etichetta rimane latente per lungo tempo diventerà sempre più difficile da scardinare;
  • Le etichette che incolliamo alle persone e agli eventi che viviamo influenzano a loro volta il nostro modo di posizionarci nelle situazioni e quindi il nostro modo di comportarci, attivando un processo di condizionamento continuo e circolare.

È possibile depotenziare le nostre etichette?

Ecco alcuni suggerimenti:

  • Aumentare la consapevolezza del nostro modo di leggere ciò che vediamo e viviamo, del nostro personale e individuale modo di attribuire significati: la consapevolezza di sé è sempre il primo fondamentale passo!
  • Mantenere uno sguardo curioso, aperto alle possibilità, cercando di evitare di ridurre la complessità ad un’unica semplice spiegazione: poniamoci delle domande;
  • Ricordarsi che un comportamento agito in una situazione non definisce una persona, è un comportamento agito di cui non sappiamo nulla o molto poco;
  • Evitare giudizi sommari e semplicistici: cerchiamo di coinvolgere l’altro, poniamogli delle domande esplorative prestando attenzione anche a come le formuliamo e alle parole che utilizziamo;
  • È possibile che in situazioni simili una persona abbia imparato nel tempo ad agire comportamenti simili, questo non significa che il nostro modo di leggere quel comportamento renda più vero il nostro giudizio;
  • Un’etichetta condivisa da più persone non la rende più reale. È molto probabile che in un gruppo di persone connesse tra loro (famiglia, gruppi di lavoro, amici, …) si crei un “modo comune” di etichettare, in questi casi uno sguardo altro e apertoalle possibilità è un valore aggiunto e inestimabile;
  • Le etichette che si potrebbero incollare sugli altri sono infinite, perché proprio la nostra dovrebbe essere quella “giusta”? Cercare di coltivare il dubbio, mantenersi aperti alle possibilità e in ascolto dell’altro può contribuire a rendere la potenza del processo di etichettamento meno dannosa!

E tu? Quanto sei consapevole delle etichette che incolli ogni giorno? Come percepisci le etichette che gli altri incollano su di te?

Se hai voglia di raccontarci la tua esperienza, scrivila nei commenti oppure a info@cm-consulenza.com, ci faremo carico di trasformarla in un futuro articolo o in una PMQ, affinché la tua storia, che proteggeremo garantendoti la massima riservatezza e tutela della privacy, possa diventare uno strumento utile per tutti.

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A presto!

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